Gianni Belletti: “Le principali quattro conseguenze della privatizzazione dei cosiddetti beni comuni”

Gianni Belletti: “Le principali quattro conseguenze della  privatizzazione dei cosiddetti beni comuni”

Intanto definiamo le distinzioni fra beni collettivi, beni pubblici e beni comuni.
Rifacciamoci alle definizioni di Elinor Ostrom, insignita del Premio Nobel per l’economia nel 2009 proprio sull’analisi delle risorse comuni, per cui i beni collettivi sono quei beni il cui uso nessuno è impedito ad utilizzare perché non ne compromette sostanzialmente la disponibilità (per esempio le strade). I beni pubblici e i beni comuni , invece, appartengono a quelle categorie in cui l’esclusione di un utente diventerebbe troppo dispendiosa e quindi non praticabile: per i beni pubblici ,però, un uso sconsiderato da parte di un utente non compromette la disponibilità per gli altri, mentre per i beni comuni lo stesso uso smodato da parte di un solo individuo può compromettere la disponibilità rimanente per gli altri potenziali fruitori.
Per fare un esempio, l’acqua potabile della rete idrica è un bene pubblico, mentre l’acqua di un consorzio di irrigazione ,in una zona arida, è un bene comune. Oggi, in Italia, parliamo di “beni comuni” generalmente per indicare i “beni pubblici” e i “beni collettivi”.

Negli ultimi 30-40 anni, come sappiamo bene, complice la tecnologia informatica e lo sgretolamento di alternative al sistema capitalistico, si è affermata l’assoluta libertà di movimento del capitale e della finanza (naturalmente non delle persone).
Detto molto banalmente, questa spinta ha fatto si che i beni pubblici di tutto il mondo diventassero appetibili, diventassero oggetto di lucro.

Parliamo, fra gli altri, di acqua, di salute, di educazione, di patrimonio naturale, di mezzi di comunicazione, di energie, di patrimonio artistico, di spazzatura, di migranti, di carcere, di credito, di sistema bancario, di integrazione sociale.

Quali le conseguenze ?

La prima. Non consideriamo più il bene come “comune”, ma come oggetto di affare economico, di impresa redditizia.

Se il carcere è privato, il letto in carcere è considerato alla stregua di un letto di una camera di un hotel, o come un seggiolino su un aereo: va occupato il più possibile.
Per uno stato però, il letto di un carcere, se lo stato assolve le sue funzioni, andrebbe liberato e tenuto vuoto il più possibile.

La seconda. Continuando sul carcere per rendere l’idea, non si tratta solo di occupare il letto; attorno c’è tutto un interesse secondario fatto di oggetti e servizi, dalla biancheria e dai vestiti, alla mensa, agli spostamenti, alla sicurezza, alla manutenzione, ecc. Diciamo che c’è un indotto che, spesso, supera in interesse l’oggetto principale, supera il “business” del letto da riempire.

La terza: se la spesa è sostenuta dalla collettività, dallo Stato, tale spesa grava esclusivamente sui conti dello Stato, e viene calcolata come “debito”. Se la stessa spesa viene gestita dai privati, naturalmente rimane sempre un debito per lo stato, ma è una spesa che fa aumentare il Pil.

La quarta. E’ la più terrificante perché è quella che può mettere la parola fine ad una inversione di tendenza: togliendo allo stato la gestione del bene e assegnandolo ad una entità finanziaria, più che economica, “nascondiamo il nemico”, cioè non siamo più in grado di individuare il responsabile, non abbiamo più l’obiettivo da combattere.
Un conto è prendersela con l’ospedale se mi fa aspettare un anno per una visita, un conto è prendersela con una società privata che ti permette di fare quella stessa visita dopo pochi giorni a pagamento.
Un conto è gestire direttamente la situazione di un richiedente asilo, un conto è renderla oggetto di lucro per società private, anche straniere, addirittura anche spostando all’estero i centri di accoglienza, in paesi dove la mano d’opera costa dieci volte di meno (come fa l’Australia).
Ma di esempi simili potremmo riempire, tutti credo, pagine e pagine.

Che fare?
Altro che Davide contro Golia.
Siamo schiacciati dalla difficoltà di veicolare attenzioni diverse, approcci nuovi.
Credo che siamo stati talmente convinti che la collettività non è in grado di gestire il bene comune, che neanche proviamo a ipotizzare strade differenti.
Sicuramente la gestione collettiva dei beni pubblici e collettivi ha presentato in passato e sempre presenterà delle difficoltà e dei coni d’ombra, ma credo che sia il male minore, se l’alternativa è quella a cui assistiamo continuamente, non solo, purtroppo, nel nostro paese, ma in quasi ogni angolo di questo mondo “globalizzato”.

Il nostro compito è quello di creare le cosiddette “infrastrutture di resistenza”, cercando di ipotizzare strade differenti, nell’emergenza della tutela dei più vulnerabili.

Gianni Belletti
San Nicolò, 15.02.2017