Quindi, che cosa è necessario in una situazione così disperata? cosa dovrebbe fare l’Europa?
Fredric Jameson ha recentemente proposto l’utopia della militarizzazione globale
della società come modalità di emancipazione: mentre i deadlock del capitalismo globale sono sempre più palpabili, tutti i cambiamenti immaginati democratici – di moltitudine di base ‘dal basso’ sono in ultima analisi condannati a fallire,  quindi l’unico modo per rompere in modo efficace il circolo vizioso del capitalismo globale è una sorta di ‘militarizzazione’, che non è altro che un altro nome per definire la sospensione del potere dell’ economia autoregolamentata. Forse la crisi dei rifugiati in Europa in corso offre la possibilità di provare questa opzione. E’ pura follia pensare che un tale processo possa essere lasciato svilupparsi liberamente: se non altro, i rifugiati hanno bisogno di viveri e di cure mediche.
Bisogna ammettere che nel 2015 la Germania ha dimostrato un’ apertura inaspettata accogliendo centinaia di migliaia di profughi. (Ci si chiede se la ragione segreta di questa magnanimità tedesca non sia la necessità di riscatto
per il trattamento riservato alla Grecia nello stesso anno.) Ciò che è necessario
per fermare il caos è coordinamento ed organizzazione su larga scala:
l’ istituzione di centri di accoglienza vicino al nucleo della crisi (Turchia, Libano, costa siriana, costa del Nord Africa), dove devono essere registrate e digitalizzate migliaia di persone; il trasporto organizzato di quelle accettate nei centri di accoglienza in Europa, e la loro ridistribuzione nei potenziali siti di insediamento. La forza militare è l’unica che può affrontare un così grande compito in modo organizzato. Affermare che dare ai militari questo ruolo sappia di ‘stato d’emergenza’ è semplicemente ipocrita: una situazione in cui decine di migliaia di persone si riversano in aree densamente popolate senza alcuna organizzazione è il vero stato di emergenza, e parti dell’ Europa sono ora in questa situazione. I criteri per l’accettazione e l’ insediamento devono essere formulati in modo chiaro ed esplicito: quali e quanti rifugiati accettare, dove trasferirli, e così via. L’ arte qui è quella di trovare la via di mezzo tra i desideri dei rifugiati (tenendo conto del loro desiderio di trasferirsi in paesi in cui hanno già parenti, etc.) e le capacità dei diversi paesi di ospitarli. Il diritto totale di ‘libera circolazione’ dovrebbe essere limitato, se non altro perche’ non esiste neanche tra i rifugiati: soprattutto per quanto riguarda la posizione sociale, chi è in grado di superare tutti gli ostacoli ed entrare in Europa ha ovviamente un privilegio finanziario, tra le altre cose.

[…]

La poverta’ era un concetto politico diffuso in Europa, almeno dal Medioevo al XVII secolo, ma anche se faremo del nostro meglio per imparare da alcune di quelle storie, siamo più interessati a ciò che il povero è diventato oggi. Pensare in termini di povertà ha il sano effetto, innanzitutto, di mettere in discussione le categorie di classe tradizionali e di costringerci ad indagare con occhi nuovi come la composizione delle classi e’ cambiata e guardare la vasta gamma di attività produttive della gente dentro e fuori le relazioni salariali. Visto in questo modo, in secondo luogo, il povero non è definito dalla mancanza, ma dalla possibilità. I poveri, migranti e lavoratori “precari” (cioè quelli senza un’ occupazione stabile) sono spesso concepiti come esclusi, ma in realtà, anche se subordinati, sono completamente entro i ritmi globali della produzione biopolitica. Le statistiche economiche possono cogliere la condizione di povertà in termini negativi, ma non considerano le forme di vita, i linguaggi, i movimenti, o le capacità di innovazione che possono creare. La nostra sfida sarà quella di trovare il modo di tradurre la produttività e le possibilità dei poveri in forza positiva.

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