Spiega Alessandro Somma: «La democrazia partecipativa, tipicamente
intrecciata con la sovranità statuale, indica la possibilità degli
individui di incidere sulle decisioni collettive: possibilità effettiva,
assicurata dal funzionamento del principio di parità in senso sostanziale,
che la Costituzione italiana reputa non a caso un presupposto fondamentale
per “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione
politica, economica e sociale del paese” (art. 3). Diverso è il caso della
democrazia deliberativa, che coinvolge tutti i potenziali interessati
dalla decisione da assumere, i cosiddetti stakeholders, offrendo però loro
solo la mera possibilità formale di prendere parte alle decisioni: senza
considerazione per l’effettiva possibilità di incidere sul loro contenuto».
L’Europa è ovviamente il continente in cui questo processo si è
esplicitato in maniera più radicale. Come afferma Peter Mair in Governare
il vuoto. La fine della democrazia dei partiti, il ridimensionamento
della democrazia popolare, condizione necessaria per il ridimensionamento
del movimento operaio, può essere considerata la raison d’être di tutto
l’esperimento europeo, il cui ultimo stadio inizia con la creazione del
sistema di «cambi convergenti» del Sistema monetario europeo (Sme), nel
1979, fino ad arrivare all’introduzione dell’euro nei primi anni 2000.
L’Italia è la perfetta cartina di tornasole di questo processo. Come ha
ricordato di recente Joseph Halevi, l’Italia fu il paese più danneggiato
dall’adesione allo Sme, che comportò una rivalutazione del tasso di cambio
reale molto significativa, con tutta una serie di conseguenze estremamente
deleterie per il paese: in primis, l’apparizione di un deficit estero
strutturale. Alla luce di ciò, verrebbe da chiedersi perché i nostri dirigenti insistettero tanto per entrare nello Sme. Una possibile spiegazione ce la fornisce nientedimeno che Giorgio Napolitano, che al tempo, in veste di deputato del Pci, capì bene che «la disciplina del nuovo meccanismo di cambio europeo» significava non accomodare più il conflitto distributivo e addossare alle richieste salariali la
responsabilità della perdita di competitività del paese. La creazione di un potente vincolo esterno, nella forma del cambio semifisso, avrebbe insomma facilitato una maggiore flessibilità verso il basso dei salari. E così è stato. Questa chiave interpretativa è applicabile a tutte le successive fasi costituenti dell’eurosistema: dall’Atto unico del 1986 – in cui furono formalizzate le fondamenta neoliberiste della costituzione economica europea, dalla libera circolazione dei capitali al divieto (de facto) delle politiche industriali, attraverso la normativa sugli aiuti di
Stato – fino al Trattato di Maastricht del 1992, che fissò i termini cui subordinare la fase finale dell’unione monetaria, dall’indipendenza assoluta della Banca centrale europea dagli Stati nazionali, alla flessibilizzazione del lavoro, ai limiti al deficit e al debito pubblico. Limiti che sono stati successivamente inaspriti, prima col patto di stabilità e crescita del 1997 e poi col fiscal compact del 2012, che prevedeva addirittura l’integrazione di una norma sull’obbligo del pareggio/surplus di bilancio negli ordinamenti nazionali (o ancor meglio nelle Costituzioni) degli Stati membri.

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