Le comunità indigene dell’Amazzonia sono come un vaso di argilla in mezzo a molti vasi di ferro.

Un’indagine pubblicata di recente fa luce sulle attività di sei grandi aziende agroalimentari: tre operanti in Amazzonia, due nel bacino del Congo in Africa e una in Nuova Guinea. Tra il 2013 e il 2019 oltre 300 società di investimento, fondi pensione e banche internazionali sono state coinvolte nel finanziamento di questi progetti con oltre 44 miliardi di dollari. Secondo Global Witness, JBS SA, Marfrig Global e Minerva Foods, le tre società coinvolte nella deforestazione dell’Amazzonia brasiliana, rappresentano oltre il 45% della capacità di produzione di carne dell’intera regione. JBS, il più grande produttore mondiale di carne confezionata, non si è mai impegnato a rescindere i contratti con i fornitori accusati di deforestazione da IBAMA, dopo aver apertamente violato un accordo siglato con Greenpeace nel 2009. “La filiera che porta la carne brasiliana sul mercato europeo è contaminata da attività illegali: nei nostri piatti stanno finendo i prodotti responsabili della distruzione di ecosistemi di grande importanza per la salute del pianeta”, ha affermato Martina Borghi, attivista forestale di Greenpeace Italia. “Purtroppo quello che sta accadendo nel parco Ricardo Franco non è un caso isolato: situazioni simili sono comuni in molte aree dell’Amazzonia brasiliana. Attualmente è impossibile per chi acquista bovini o carne da questo territorio garantire una filiera pulita esente da deforestazione e accaparramento di terre” (Greenpeace, 2020).

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