Se intendiamo la società come società britannica, russa o messicana, ciò ovviamente dà peso all’opinione che lo stato può essere il punto centrale della trasformazione sociale. Tale presupposto, tuttavia, prevede in precedenza un’astrazione dello stato e della società dal loro ambiente spaziale, uno smistamento concettuale delle relazioni sociali alle frontiere dello stato. Il mondo, in quest’ottica, è costituito da così tante società nazionali, ognuna con un proprio stato, ognuna delle quali mantiene relazioni con tutte le altre in una rete di relazioni internazionali. Ogni stato è quindi il centro del proprio mondo e diventa possibile concepire una rivoluzione nazionale e vedere lo stato come il motore del cambiamento radicale nella “sua” società. Il problema di una tale visione è che le relazioni sociali non hanno mai coinciso con le frontiere nazionali. Le attuali discussioni sulla “globalizzazione” non fanno altro che evidenziare ciò che è sempre stato vero: le relazioni sociali capitaliste, per loro natura, sono sempre andate oltre i limiti territoriali. Mentre il rapporto tra il signore feudale e il servo era sempre una relazione territoriale, la caratteristica distintiva del capitalismo era di liberare lo sfruttamento da tali limiti territoriali, in virtù del fatto che il rapporto tra capitalista e lavoratore era ora mediato attraverso il denaro. La mediazione delle relazioni sociali attraverso il denaro significa una completa de-territorializzazione di tali relazioni: non vi è alcun motivo per cui datore di lavoro e dipendente, produttore e consumatore, o lavoratori che si uniscono nello stesso processo di produzione, dovrebbero trovarsi all’interno dello stesso territorio.

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