Con le nuove forme di accumulazione del capitale, i nuovi rapporti di produzione e il nuovo status giuridico della proprietà, tutte le pratiche popolari che appartenevano, in una forma silenziosa, quotidiana, tollerata o in una forma violenta, all’illegalità dei diritti sono state ridotte con la forza ad un’illegalità della proprietà. In quel movimento che ha trasformato una società di tributi giuridico-politici in una società di appropriazione dei mezzi e dei prodotti del lavoro, il furto tendeva a diventare la prima delle grandi lacune della legalità. O, per dirla in altro modo, l’economia delle illegalità è stata ristrutturata con lo sviluppo della società capitalista. L’illegalità della proprietà è stata separata dall’illegalità dei diritti. Questa distinzione rappresenta un’opposizione di classe perché, da un lato, l’illegalità che doveva essere più accessibile alle classi inferiori era quella della proprietà – il trasferimento violento della proprietà – e perché, dall’altro, la borghesia doveva riservarsi l’illegalità dei diritti: la possibilità di aggirare i propri regolamenti e le proprie leggi, di garantirsi un immenso settore di circolazione economica attraverso un’abile manipolazione delle lacune nella legge – lacune previste dai suoi silenzi, o aperte da tolleranza di fatto. E questa grande ridistribuzione delle illegalità doveva persino essere espressa attraverso una specializzazione dei circuiti legali: per illegalità della proprietà – per furto – c’erano i tribunali ordinari e le punizioni; per le illegalità dei diritti – frode, evasione fiscale, operazioni commerciali irregolari – speciali istituzioni legali applicate con transazioni, compromessi, multe ridotte, ecc. La borghesia si è riservata il fruttuoso dominio dell’illegalità dei diritti.

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